Che si sappia, Cagliari ha sempre avuto un rapporto difficile con l’acqua. Fossero quelle del suo golfo e, soprattutto quelle di quei grandi spazi d’acqua ferma e insalubre che le fanno corona e che la stringono d’assedio come le morse d’una tenaglia. Tanto che da quelle acque, fossero di mari blu o stagnanti, si volle sempre tenere a debita distanza. Più che ricercarne modi e possibilità di integrazione, o comunque di convivenza, ha infatti sempre identificato quelle acque, soprattutto quelle ferme e limacciose degli stagni, come frontiera inospitale, come terre proibite perché malariche e perniciose.
C’è dunque un antico e lungo rapporto fra Cagliari ed i suoi stagni che ha incrociato più volte la storia della città. È un rapporto intenso ma controverso, fatto di grandi innamoramenti ed anche di drammatici ripudi, sul quale si è via via sviluppata l’armatura urbana della città moderna.
Contrariamente a quanto accaduto altrove – senza scomodare Venezia basterebbe ricordare quanto realizzato in Linguadoca, a Aigues-Mortes ad esempio, i cagliaritani non si posero mai il problema di dover disciplinare e valorizzare in qualche modo quelle acque, lasciando ai fenomeni naturali ed al flusso delle maree il compito di segnare e di disordinare il territorio.
D’altra parte, nel passato Cagliari non ebbe mai risorse o architetti tali da costruire una città lagunare, per cui quegli stagni furono sempre visti, più che una risorsa ambientale, come spazi fuori della portata dei cittadini. Anche Francesco Alziator, che tentò un improbabile parallelismo storico con Venezia, si fermò a notazioni più di colore che di storia, scrivendo romanticamente della “dolcissima, languida malinconia veneziana” che lo aveva affascinato affacciandosi sulle sponde della laguna di Santa Gilla.
Ed è anche curioso rilevare, a proposito, come a quelle grandi distese d’acqua salmastra sia sempre rimasto, nel parlare dei cagliaritani, l’antico nome di stagni e non quello, geograficamente più corretto, di lagune, avendo esse un collegamento diretto con il mare. O forse proprio curioso non è, perché anche con il nome s’è inteso sperare in quella transitorietà della condizione umida, che è tipica degli stagni.
È giusto quindi sostenere come la storia urbanistica della città possa essere “letta” attraverso il rapporto con i suoi stagni, con quelle zone umide che la cingono da Est ad Ovest. Senza riandare con i ricordi all’antica città giudicale, è la Cagliari ottocentesca – la città moderna che intese discendere dalla rocca murata di Castello – che si pose per la prima volta il rapporto con quei grandi bacini acquei costieri.
È un rapporto che interesserà inizialmente la salubrità dei luoghi, dato che quelle acque ferme erano ritenute fonte di putredine e di fetore, fomite di infezioni e luogo privilegiato per colonie di malefiche anopheles generatrici de “is callenturas”. E’ un rapporto che riguarderà poi ancora gli spazi da conquistare per ampliare la città, quella città lineare che si era pensato di realizzare in pianura da Santa Gilla fin oltre il colle di Bonaria. È un rapporto che riguarderà ancora il rapporto di convivenza con quella che era l’unica importante industria della città, il sale marino, i cui impianti la limitavano dappresso, ad oriente come ad occidente. Capire e ricostruire quel rapporto significa quindi intendere ed interpretare la storia urbanistica della città moderna, comprendere del perché Cagliari non abbia mai avuto un suo intenso “vissuto” con il mare, del perché ancora, nella sua dinamica d’espansione, non abbia privilegiato uno stabile baricentro di irradiazione che ponesse il rapporto con le acque (aperte o chiuse) come punto di primario interesse.
L’evolversi delle culture urbanistiche negli ultimi due secoli ha certamente contribuito ad interpretare quel rapporto in modi assai diversi, tanto che alcune scelte di ieri e dell’altro ieri parrebbero oggi incomprensibili, miopi od anche errate. Peraltro, anche le diverse regolamentazioni edilizie attuate dalle municipalità cagliaritane nel ’900 non riusciranno mai a vincere quella separatezza che le due grandi lagune hanno rappresentato nel divenire di Cagliari. Anche quando furono interrate le saline di San Paolo e di La Palma e la palude sotto Bonaria, la città non riuscì mai a cooptarle completamente, mantenendole come appendici estranee alla sua vita.
D’altra parte quando si predispose la forma della nuova città di pianura, lo sviluppo prevedibile doveva scontare due postulati principali, legati ambedue alla presenza delle due grandi aree umide. Il primo postulato riguardava Santa Gilla, ed i luoghi di ponente, ove si doveva costruire il destino mercantile e industriale della città; il secondo, dedicato allo sviluppo residenziale, verso la direttrice di levante, con l’utilizzazione delle esistenti aree umide ed insalubri, per saldare alla città i centri agricoli del suo hinterland agricolo. Era sorta così la previsione, allora autorevolmente caldeggiata da molti esponenti municipali, che “la Cagliari del futuro dovesse sorgere lungo gli argini bonificati e colmati del Molentargius”. Si pensava cioè a come poter restituire al destino della città residenziale le sue aree umide, ridando loro una centralità urbanistica, e soprattutto progettando una nuova e forse utopica città lagunare.
Purtroppo anche talune delle fatte, ivi comprese talune opzioni cosiddette protezionistiche, hanno acuito questa estraneità, nè sono riuscite a porre correttamente un rapporto di integrazione. Il discorso è indifferente sia che si pensi a Santa Gilla o a Molentargius; le stesse iniziative prese anche di recente per il loro recupero sembrerebbero non avere privilegiato un legame effettivo e solido con la città e la sua vita.
Forse, gran parte di quelle scelte sono state calate dall’alto senza un adeguato confronto con la storia e l’habitat cittadini; forse si è data troppa prevalenza ad opzioni portate avanti da forze estranee ai reali interessi ed agli stessi desideri della comunità cagliaritana.
Eppure quegli stagni hanno fatto parte da sempre dell’inconscio collettivo dei cagliaritani, che ad essi, ed alla loro valorizzazione, hanno legato più volte le loro utopie di sviluppo e di affermazione. Ma restarono, per via di resistenze tanto miopi quanto forti, niente più che utopie. È il caso, emblematico, del piano per un nuovo quartiere da far nascere nelle vecchie saline di La Palma-San Bartolomeo, immaginato fra canali e specchi d’acqua, che fu fatto abortire negli anni ’60 da una contestazione ostile e preconcetta, originata tra l’altro da obiettivi ideologicamente e culturalmente estranei alla città (e di cui oggi sono quegli stessi a doverne recitare il mea culpa).
Era sembrato allora, e lo sembra ancora oggi, che la città avesse quasi timore di specchiarsi nell’acqua. Ci sono molte verifiche di quest’assunto: se, ad esempio, vi venisse voglia di percorrere tutto intero l’asse mediano che costeggia il Molentargius, quel senso di cesura fra la città e la sua laguna vi apparirebbe in tutta la sua struggente drammaticità; non diversa sarebbe la sensazione se, costeggiando Santa Gilla sulla circonvallazione del Casic, vi soffermerete ad osservare come la città si sia tenuta prudentemente distante dal contatto con le rive di quella laguna di ponente.
Gli stessi stabilimenti dell’area industriale ed il grande porto terminal sono rimasti fuori dalla vita e dalla coscienza dei cagliaritani e, per quel che s’è potuto fin qui intuire, anche nel grande progetto ambientale per il recupero del Molentargius, sembrerebbe essere rimasto sempre latitante un intelligente processo di integrazione con la forma e l’habitat della città.
D’altra parte è sempre mancato ai cagliaritani (come ai sardi in genere) lo spirito d’intraprendenza degli olandesi, che – come è noto -, strappando al mare vaste distese di terreno, o prosciugando i grandi stagni costieri come lo Zuiderzee, riuscirono a costruire su quei polders una grande ricchezza agricola, presupposto per le loro straordinarie performance nei commerci e nella finanza mondiali. Nè abbiamo avuto lo stesso intuito che loro ebbero nel realizzare, con la regolamentazione artificiale di quelle acque, una vasta rete di idrovie, lunga migliaia di chilometri, divenuta poi la base per un economico sistema interno di trasporti.
Ma non è certo una tanto improbabile comparazione che si vuole qui prospettare. Troppo diversa è infatti la Sardegna dall’Olanda, e troppo differenti sono i sardi dagli olandesi che nessun raffronto può essere tentato. Quel che invece si intende sottolineare, richiamando l’esempio olandese come quello francese della Linguadoca, è che le lagune, o gli stagni che dir si voglia, possono divenire, grazie all’intelligente intraprendenza degli uomini, oggetto di trasformazione e di valorizzazione, mentre non sarebbe nè conveniente nè opportuno tenerli off limits dalla civiltà urbana.
Se altrove sono stati gli uomini a governare ed a correggere la natura, per proteggersi dalle sue offese, in Sardegna è accaduto l’opposto, tanto che l’uomo s’è sempre reso schiavo della naturalità degli eventi. Vecchi e nuovi preconcetti hanno fatto sì che non s’affermasse, da noi, quel che potremmo chiamare, parafrasando Maritain, un “umanesimo ambientale”, una civiltà cioè che convalidasse il primato dell’uomo sulla natura, perché fosse quest’ultima a dover essere al servizio dell’uomo e non viceversa.
In mancanza di questo primato, gli stagni sono sempre rimasti una frontiera proibita per la città, luoghi inospitali e disagreables, da ammirare solo da lontano, all’alba ed al tramonto, per quegli scenari da favola che hanno saputo riconsegnare alla nostra vista, e che hanno reso celebre la città (sono gli orizzonti ove fumano lenti stagni, di cui parlò giovanetto Giaime Pintor).
Personalmente credo che nel ridisegnare la città del nuovo millennio sia questo uno dei temi più suggestivi ed interessanti. Bisognerebbe però affrontarlo, non con la preconcetta ostilità del divieto per imposizione di legge, ma con il sapere architettonico di intelligenti paesaggisti. Si è infatti della personale opinione che abbiano offeso di più la natura e lo skyline delle nostre meravigliose coste le casette dei geometrastri rispettose della fascia dei 2 mila metri che le belle costruzioni au bord de la mer del valente architetto.
Nella geografia paesaggistica del nostro Paese – così decantata ed ammirata – non ci sarebbero dei gioielli come Amalfi o Portofino se lil cieco integralismo di certi ambientalisti d’abord avesse anche allora pronunciato il suo “niet”. Perciò anche in Sardegna, dove abbiamo fatto del paesaggio un totem intoccabile, non si dovrebbe dimenticare la differenza semantica esistente fra natura e paesaggio, dove quest’ultimo rappresenta l’antropizzazione introdotta sulla vergine naturalità dei luoghi.
Foto di copertina di Enrico Locci
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