C’è un proverbio sardo che dice “sa fàula tràzat cernente su riu”, cioè, pressappoco, il mito è come il fiume, dovunque passa trascina quanto può e se lo porta via, dalla sorgente del passato alla foce del presente. In una società, come quella sarda, povera, vinta, che non ha fatto “storia”, l’esperienza esistenziale si stratifica nel “mito”, che è, appunto, la storia dei vinti, la tradizione popolare come riassunto della realtà.
Non è facile decifrare gli strati di questa geologia dell’anima collettiva, nella sua vicenda millenaria , interpretare l’etnos e l’etos dell’uomo sardo, della sua dimensione, del suo essere così, spiegare le “permanenze”, dare ad esse un senso attuale, risalire alle sorgenti, quando l’uomo sardo ritualizzò, con la sua fantasia impaurita, le angosce della sua condizione inesplicabile e del suo destino implacabile, con i miti e con i riti che da noi appaiono, ora “rottami d’antichità” o incunaboli del folklore.
Se è vero ciò che afferma uno storico tedesco (uno di quelli che capiscono tutto e sistemano tutto) che lo stato primitivo dell’uomo è contraddistinto dalla identificazione dell’io umano nell’io cosmico, ebbene, allora, noi sardi siamo, come Leopardi o Montale, dei primitivi: i nostri nuraghi, le nostre “pietre fitte”, le domus de janas, le bisacce policrome, i tappeti metafisici, i mammuthones, il riso sardonico, s’attidu, il ballo tondo, su boborobò, s’andira in nora anfira, li abbiamo inventati per incatenarci all’io scosmico, all’universo. Sul piano dell’immaginazione, almeno, è meno pesante di Lawrence che i sardi conservano, a bella posta, il loro oscuro Paradiso dell’ignoranza per lasciare che il resto dell’Italia si crogiuoli nel suo illuminato Inferno: ma mette conto di dire che, oggi come oggi, non è più possibile neppure questo, dal momento che ci hanno pensato due moderne divinità ad illuminarci: il Dio Petrolio e il Califfo della Costa Smeralda.
In realtà, per la gente sarda, la “morale della storia” è questa: il nemico viene sempre dal mare, dalla malaria, importata dai Cartaginesi, ai cani mastini, importati dai Romani, contro i mastrucati latrones, alle bardane dei Goti, dei Bizantini e degli Arabi, agli usurai di Pisa e di Genova, ai cavalli versi degli Spagnoli a sas cortes de sa furcas e sas tancas serradas a muru dei piemontesi, alla caccia grossa dei bersaglieri italioti, alle teste di morto, importate dal Fascismo, al petrolio, ultimo nemico venuto dal mare. Da ciò il rifiuto della “storia”, da parte dei Sardi, e la loro fuga nel “mito”: o meglio, la realtà che si fa mito.
Riso sardonico. Era un riso “rituale”, usato, cioè, durante un rito di eliminazione. Secondo lo storico greco Timèo, in Sardegna, i vecchi, non appena compivano i settanta anni d’età, venivano uccisi, a colpi di pietra, lapidati, in altri termini, dai loro stessi figli. Secondo un altro storico, il romanzo Eliàno, era una vera e propria legge di Sardegna, in forza della quale, i figli dovevano eliminare i loro padri settantenni e il rito doveva essere celebrato fra le risate, proprio per mostrare fermezza, forza d’animo, stoicismo.
Ora, aggiungiamo noi, col permesso dei due antichi storici, un evidente provvedimento di natura economica, più che religiosa, indicante una costante eterna e immutabile della vita esistenziale in terra di Sardegna: la fame.
Mentre presso altri popoli dell’antichità si uccidevano i bambini, per placare Molok, il dio della fame, in Sardegna si uccideva il vecchio, colui che ha terminato il suo ciclo produttivo, non tanto per motivi religiosi quanto per motivi economici, per avere una bocca in meno, un concorrente in meno nella divisione di uno scarso cibo.
Naturalmente, per poter sopportare e ridere, durante il rito di eliminazione dei padri, i figli si passavano sulle labbra il lattice dell’euforia, l’antica “erba sardonica”, l’erba diffusa in tutta l’isola, amara come il fiele, che tu metà e sganghera la bocca in una tragicomica risata. Ora, i vecchi, in Sardegna, non muoiono più lapidati, ma di mancanza di fiato nel proprio letto.
Eppure, il “riso sardonico” è rimasto, fuori dal rito e dal mito, nella realtà: è il riso della melagrana, quando cade per terra e si sfascia mostrando i suoi denti sgangherati e sanguinanti (su risu de sa melagranata, rutta a terra e squartaràda): è il riso della colomba che si squarcia il ventre con le unghie quando ha fame (su risu de sa columba chi si nde bogàt sa matta cun s’ungia); è il riso giallo (su risu grogu) del mietitore del Campidano quando lo scirocco gli miete, con la sua falce di fuoco, le spighe arrugginite, nel suo campo; è il riso verde (su risu birde) del pastore di Barbagia quando la gelata primaverile gli brucia l’erba nella tanca; è il riso di cenere (su risu de chigina) del mezzadro di Logudoro quando il pastore del Goceano gli mette la candela di cera dentro il moggio di sughero per bruciargli il suo grano; è il riso nero (su risu nieddu) del minatore di Carbonia quando il “grisou” scoppia in fondo al pozzo; è il riso rosso (su risu ruiu) del pescatore di frodo quando il tritolo gli scaglia le dita mozze contro la luna.
Il giuoco della lite. C’è un giuoco di fanciulli, in Sardegna, chiamato “sa birga”, la lite. Si fa così. Si tracciano per terra dei grandi cerchi. Dentro ognuno di questi cerchi si mette un fanciullo. I cerchi si chiamano “sas tancas” e i fanciulli si chiamano “sos padronos”. I padroni delle tanche. Altrettanti fanciulli rimangono fuori dai cerchi e vengono chiamati “sos asciuttos”, a becco asciutto, cioè senza tanche, senza terra, senza nulla. Il giuoco consiste, appunto, in una “briga”, in una lite, in una lotta, fra “padrones” e “asciuttos”, fra ricchi e poveri.
A questo punto, lasciando i fanciulli che giocano nelle piazzette dei villaggi di Sardegna, mette conto di svelare i significati del loro giuoco. I fanciulli, si sa, stanno sempre ad imitare i grandi, e poi i giuochi se li passano da uno all’altro, da una generazione all’altra: e, così la storia si fa mito.
Questo giuoco è nato circa due secoli fa, quando il piemontese, buonanima, inventò, qui, in Sardegna, la proprietà privata, detta, allora, la “perfetta proprietà”. Nel 1820 fu emanata in Sardegna la legge delle chiudende, in forza della quale chiunque poteva chiudere, tancare, gratis et amore dei, i terreni comunali che prima erano proprietà collettiva.
Fin qui, niente di male. Era un modo come un altro di porre fine, anche in Sardegna, all’economia di tipo feudale e di dare inizio alla rivoluzione borghese. Il male fu che i beneficiari della legge, i nuovi proprietari, sos padrones de sas tancas, non furono i contadini, i pastori, gli ortolani, i vignaioli, che già coltivavano le terre comunitarie, ma furono quei sardi privilegiati che si trovavano alla Corte di Torino, nobili, ufficiali, magistrati, preti, che si precipitarono sui velieri e approdarono in Sardegna, prima che approdasse la Legge, e incitarono parenti ed amici al grido di «Tancadel! Tancadell».
Costoro chiusero, “tancarono” e, poi, fecero pagare ai lavoratori l’affitto di quelle terre che, prima, erano gratuite. Immaginiamoci un po’ questo sfrenato western in terra di Sardegna, questa ingiusta rapina della terra, questi pionieri sardi, armati di pietre nuragiche, filo spinato e filari di fichidindia; e immaginiamoci lo stupore, l’ira dei veri lavoratori della terra, dei servi della gleba ancora una volta fregati; e immaginiamoci i figli dei lavoratori che assistevano alla lotta, alla lite, alla “briga” dei loro padri con i “chiuditori di terre”, che culminarono nella ribellione nuorese, quando “sos asciuttos” se la presero contro sos padronos e si ribellarono per ristabilire le tradizioni comunitarie, al grido: «a su connottull», ritorno al conosciuto.
Poi, le cose andarono come sono andate ed è rimasto il giuoco dei fanciulli a mitizzare la realtà e a sacralizzare la storia. Ma la realtà è che la “perfetta proprietà” fu un “perfetto furto” che suscitò lo sdegno del poeta cieco, Melkiorre Murenu, ucciso da sos padronos per la sua satira: “Tancas serradas a muru / Fattas a s’afferra afferra / si su chelu esseret terra / si l’haian serradu a muru / Fattas a s’afferra afferra / si su chelu esseret terra / si l’haian serradu puru”. Fra cento anni, e qui volevamo arrivare, i fanciulli, in terra di Sardegna, giuncheranno al “giuoco della raffineria”, la nuova “tanca” industriale.
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