adere fa parte della vita. Rialzarsi e ripartire è possibile.
Il mio nome è Lino Cianciotto. Mi sarebbe piaciuto che fosse Michele o Angelo, e che la gente lo accorciasse affettuosamente in Lino. Invece è proprio Lino, Lino e basta. Non è un diminutivo.
Quanto a diminuzioni, nella vita, ho dato abbastanza. Nella vita faccio per professione il trekker e la guida. Batto la natura più selvaggia, apro sentieri inesplorati, mi arrampico come una capra su rocce a picco sul mare, nuoto, navigo in solitaria.
Tutto con una gamba sola, la sinistra. L’altra l’ho persa in un terribile incidente, che tuttavia non ha fermato più di tanto quelle che sono la mia attività, la mia passione, la mia ragione di vita.
Ebbene sì, sono un diversamente disabile.
3 febbraio 2013
Durante un’escursione fotografica sulle alture di Buggerru l’imprevisto. Una roccia decide di staccarsi e di precipitarmi addosso. È un attimo. La gamba destra mi rimane schiacciata da un blocco di calcare grande come un frigorifero.
Le persone che accompagnavo assieme al mio collega Pierpaolo mi presta i primi soccorsi. Io cerco di non rimanere dissanguato, sento un dolore lancinante, ma mi preoccupo del gruppo, cercando di capire se altri siano rimasti coinvolti. Per fortuna no, la roccia è rotolata giù finendo sopra un cespuglio di lentisco.
Chiedo che chiamino il 118. Sono lucidissimo e coordino tutte le operazioni, quelle per portare a valle gli escursionisti e quelle per portare a casa la pelle, gamba compresa. Riesco persino a chiamare il ristorante per annullare la cena. Con del nastro americano che ho nello zaino e dei rami di ginepro mi faccio immobilizzare la gamba, senza nemmeno togliermi i pantaloni. Mi sento debole e ho paura di perdere i sensi. E mi preoccupa un’eventuale emorragia.
Mando via il gruppo. Riccardo e Willy rimangono con me e mi aiutano a mettermi eretto. Voglio verificare subito che la gamba non perda sangue, prima di camminare giù per il ripido pendio, saltando su una gamba sola in mezzo ai cespugli, da una roccia all’altra.
Avremo percorso meno di cento metri quando percepisco le voci concitate e amiche del Soccorso Alpino e Speleologico della Sardegna. In pochi minuti mi trovo sull’ambulanza. Nell’ospedale Brotzu a Cagliari ci arrivo intorno alla mezzanotte, sempre lucidissimo. Mi operano nel reparto di chirurgia vascolare, infilandomi dei ferri nella gamba per immobilizzarla. Appena ripresomi dall’anestesia chiedo lumi al medico. Mi dice che la situazione è preoccupante ma che faranno di tutto per salvarmi la gamba.
Curare o tagliare?
La mattina dopo faccio sul mio tablet una ricerca sulle protesi. Ho già intuito che la mia vita sarà diversa e di cosa avrò forse bisogno. Telefono ai tanti amici che indossano da tempo la protesi e continuano a fare sport, escursioni, ecc. Sento la necessità di capire quali scelte fare. La carne maciullata che mette in mostra la tibia mostra una gamba che pare compromessa in maniera irreversibile e non offre prospettive di guarigione. Chiedo ai medici, impegnati a trovare soluzioni per salvare la gamba, se valga veramente la pena continuare a curare la ferita o se non sia meglio tagliare.
Passo così diversi giorni in ospedale, tra dolorose medicazioni e piacevoli visite dei familiari e delle decine di amici e parenti che vengono a salutarmi. In tanti con gli occhi lucidi dall’emozione, alcuni sorpresi della mia fredda ma consapevole determinazione nell’affrontare un evento che può cambiare la vita.
Il personale mi aiuta a lavarmi ma cerco anche di farlo da solo: voglio dimostrare a me stesso che posso farcela. Il morale è sempre alto, non ho mai versato una lacrima.
Io quella gamba non la voglio più. La sento come un oggetto ingombrante che probabilmente non camminerà più con me. Faccio capire ai medici che sono fortemente consapevole, che accetto l’amputazione, che il mio desiderio più grande è ripartire il più presto possibile. Capiscono la situazione e l’intervento va a buon fine. Sono sereno.
Quando viene a trovarmi il primario gli chiedo se la mia scelta sia stata giusta o troppo avventata. Dice che con un arto così compromesso la scelta è stata quella giusta e che presto riprenderò a camminare con la protesi.
Mi sento fisicamente bene, provato ma carico come non mai. Ho fretta di ripartire. Con un fisioterapista faccio esercizi al tappeto e alle parallele. Non vedo l’ora di indossare la protesi e voglio farlo con una muscolatura forte.
Centro Protesi di Vigorso di Budrio
La sede INAIL di Cagliari, che in questo periodo mi ha sostenuto in tutto, mi fissa per il 5 giugno la data del ricovero.
Nel Centro protesi incontro l’equipe per una prima analisi del moncone. In palestra dedico ore e ore di ginnastica con le più svariate e moderne attrezzature in attesa della prima protesi.
Da li ad una settimana mi ritrovo in piedi su due gambe. La voglia di camminare è forte e i fisioterapisti fanno fatica a fermarmi; mi raccomandano prudenza mettendomi in guardia dal rischio di eventuali cadute e di rottura della pelle del moncone. Mantenere una buona forma fisica nei mesi dopo l’incidente rivela ora tutta la sua proficua utilità. In palestra miglioro postura e camminata, ma non mi basta.
Cerco dei terreni meno semplici del pavimento liscio dell’ospedale, perciò mi avventuro nei giardini della clinica cercando delle piste meno regolari.
Sento la necessità di capire velocemente le sensazioni e i nuovi adattamenti fisiologici per muovermi nei terreni più aspri, gli stessi che voglio tornare presto a ripercorrere.
La vita riprende più forte di prima
L’incidente non mi ha impedito di continuare a lavorare come prima e a praticare l’attività di guida ambientale e le mie passioni: speleologia, trekking, arrampicata, kayak, snorkeling, mountain bike; ancora più motivato già dopo pochi mesi dal fato.
Spesso organizzando o partecipando a eventi sportivi di trail running in Sardegna e nel resto d’Italia con l’obiettivo di offrire un segnale chiaro che la disAbilità non è un limite.
Un messaggio forte e chiaro
Esteso anche durante gli incontri pubblici dove sono chiamato a raccontare la mia esperienza e le soluzioni adottate per affrontare la nuova situazione.
Con sempre un messaggio di ottimismo e di speranza nei confronti della ripartenza, dell’integrazione e dell’inclusione.
La disabilità è qualcosa che arriva dal nostro interno: se noi ci sentiamo disabili anche gli altri ci vedono tali. Raramente parcheggio l’auto nello stallo dei disabili, penso che possa arrivare qualcuno che ne ha più bisogno di me. Una volta che l’ho fatto, un vigile mi ha chiesto… se avessi il tesserino. Non si era accorto della protesi, nonostante avessi i bermuda. Questa, per me, è una vittoria.
In copertina: LC-COOLP-01345 – A percorrere le “vie d’acqua” ci sono andato subito, con il rischio e la paura di non farcela. Cercando di esplorare me stesso e i miei limiti. Qui nel rio Bau Alase, tra Aritzo e Gadoni, in Sardegna.
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