Chi si ricorda del film 55 giorni a Pechino? Un kolossal americano del 1963 firmato dal grande Nicholas Ray con un cast di attori famosi quali Ava Gardner, Charllton Heston e David Niven. Le spettacolari immagini dei marines Usa che entrano nella “città proibita” di Pechino e liberano le delegazioni occidentali dall’assedio dei “boxers” sono entrate nella storia del cinema. Grazie a quel film, che di frequente viene trasmesso in tv, è diventata familiare una pagina di storia altrimenti sconosciuta. La rivolta dei boxers è soltanto un piccolo episodio dell’inizio del secolo, ma molto significativo perché per la prima e ultima volta vide fianco a fianco i soldati di undici potenze mondiali contro un unico nemico: i contadini cinesi sobillati dall’imperatrice Tsu Hsi.
Ebbene, dietro i marines americani, i fanti inglesi, tedeschi, francesi e giapponesi che sfilavano con le rispettive bandiere nel piazzale della “città proibita”, c’era anche un plotone di marinai italiani. Tra questi un sardo: Michele Maria Meloni di Teulada. Nel film, ovviamente, non compare. Ma Michele Meloni fu eroe in carne e ossa e non di celluloide: si battè coraggiosamente per difendere le legazioni occidentali dalla furia dei boxers.
A Teulada un cippo ricorda un concittadino plurimedagliato e valoroso. Il monumento è opera del greco Nikefors Kouvaras che lo ha realizzato durante il concorso di scultura che il Comune organizza ogni estate. Nel paese natale c’è una strada a lui intitolata e resta anche la casa paterna in via San Francesco (all’epoca si chiamava via Castello). Ma chi era Michele Maria Meloni e come si trovò in mezzo alla rivolta dei boxers?
Come in tutte le storie d’avventura cominciamo dall’inizio, raccogliendo le notizie dalla pubblicazione realizzata da un giovane artigiano del paese, Giancarlo Genugu, appassionato cultore di memorie teuladine. Alla fine del secolo scorso quel lembo estremo del sud-ovest di Sardegna era davvero un luogo lontano, raggiungibile più dal mare che da terra. Era un paese ad economia agro-pastorale, ma grazie alla sua posizione, era anche un importante crocevia per i traffici mercantili nel Mediterraneo occidentale.
Michele nasce nel 1880, primo di cinque figli, da Francesco e Giovanna Pisano. La madre muore che lui aveva appena nove anni. Il giovane Michele lo ricordano con un carattere forte, ribelle, anticonformista e insofferente della realtà sempre uguale e, tutto sommato, povera del paese. Frequenta le scuole elementari, le uniche allora esistenti, poi si arrangia con lavoretti nei campi. Alla prima occasione se ne va in cerca di nuove strade. I genitori avrebbero voluto avviarlo alla vita ecclesiastica, ma lui preferisce un’altra divisa: quella della Marina. Era il 1897. Dopo i corsi a La Maddalena viene imbarcato come mozzo sulla nave da guerra “Elba”. Ed ecco che la sorte lo catapulta dall’altra parte del mondo, in Cina, dove si giocano i destini delle grandi nazioni. L’Italia, seppure in modo minore, partecipa alla guerra. Così il governo di Roma invia due potenti navi, l’Elba e la Calabria, nel lontano Oriente per proteggere la legazione italiana.
Nei primi mesi del 1900 in Cina stava divampando la ribellione che passerà alla storia come “la rivolta dei boxers”. Per capire i retroscena della vicenda, in cui si ritrova coinvolto Michele Meloni, occorre aprire una finestra sulla Cina a cavallo del secolo. Tra il 1898 e il 1900 l’atmosfera per gli stranieri era piuttosto pesante. Erano accusati, soprattutto gli inglesi, di imperialismo e sfruttamento. La Compagnia delle Indie, da mezzo secolo proprietaria di enormi piantagioni, aveva il monopolio nel commercio dell’oppio e di molti prodotti della terra. Nel 1848 col trattato di Nanchino, l’Inghilterra ottenne l’apertura al commercio di cinque porti e il possesso diretto di Hong Kong. Dietro gli inglesi si infilarono francesi, russi, americani e anche i giapponesi, gareggiando negli affari e nel pretendere privilegi. Ma oltre i problemi economici alla base del malcontento c’era una forte carica xenofoba che partiva direttamente dall’imperatrice. Sul trono della dinastia Manciù era salita l’imperatrice Tsu Hsi, una donna dal carattere fortissimo, dalla spiccata personalità e da uno smisurato desiderio di potere.
Ossessionata dall’idea della morte, reazionaria e crudele, Tsu Hsi appare nelle foto d’epoca proprio come Nicholas Ray l’ha poi ritratta nel film. Nel 1898 l’imperatrice prese tutto il potere nelle sue mani. In questo clima nasce e divampa la “rivolta dei boxers”.
Con quel nome (il cui etimo deriva dall’inglese “box”) i britannici chiamavano i seguaci della setta I-go-ciuan che significa “pugno della giusta armonia”. Erano i membri di un’antica società segreta formata da nazionalisti esasperati, contadini, razzisti e xenofobi. Si riconoscevano per il codino e la testa accuratamente rasata. La rivolta scoppia nella primavera. A Pechino in quel tempo viveva una nutrita comunità occidentale, composta in prevalenza da diplomatici e militari con le famiglie. Il quartiere delle legazioni si trovava a sud est della città imperiale. L’ambasciata italiana era situata vicino a quelle di Francia e Giappone. C’erano poi le rappresentanze di Gran Bretagna, Austria-Ungheria, Russia, Spagna, Belgio, Germania, Olanda e Stati Uniti.
Le prime sparatorie e aggressioni avvennero in aprile, seguite da saccheggi e incendi. Per gli occidentali la situazione si fece davvero difficile. Fu proprio in quel maggio che nella rada di Ta Ku, il porto più vicino alla capitale, approdò la nave “Elba” con a bordo un distaccamento di ventotto marinai italiani al comando del tenente di vascello Paolini. Michele Meloni faceva parte del gruppo. I militari italiani raggiunsero Pechino e si unirono ai quasi quattrocento uomini di diversa nazionalità chiamati a difendere le legazioni occidentali.
Rivedendo il film di Nicholas Ray possiamo immaginare come dovesse presentarsi la capitale cinese agli occhi del giovane marinaio sardo. I marinai, guidati da Paolini, si fecero largo nelle strade affollate di rivoltosi aizzati dai boxer. Fucili alla mano, baionette innestate, si aprirono il varco sino al quartiere occidentale. Appena in tempo, visto che un americano era stato già aggredito nella città imperiale, una signora inglese e il suo interprete bastonati, la marchesa Camilla Salvago Raggi, moglie dell’ambasciatore italiano, si era sottratta a stento da un’aggressione. La tensione cresceva di giorno in giorno, fomentata dalla stessa imperatrice.
Il cannoniere Michele Meloni e i marinai italiani si schierarono a difesa delle mura che circondavano il quartiere della comunità europea. Il 20 giugno iniziò l’assedio. Si sparava da tutte le parti, i boxers cercavano di irrompere all’interno, ma tutti gli attacchi venivano respinti. “Fu in quelle circostanze – scrive Giancarlo Genugu – che Michele Meloni ebbe modo di mettere in luce il suo coraggio e la sua intraprendenza. Armato di un cannoncino da sbarco di 37 millimetri, l’unico in dotazione tra i difensori, combatté con grande valore spostandosi ovunque fosse più intenso l’assalto cinese. Il 2 giugno fu ferito alla testa da schegge di una granata sharpnel e ricoverato per qualche giorno nell’ospedale”.
Il 10 luglio Meloni, ancora debole per la ferita ma di nuovo sulle barricate, venne inviato a difendere la legazione francese che stava per essere sopraffatta dai rivoltosi. Il tempestivo intervento probabilmente fu determinante: Meloni mise in fuga i boxers a colpi di cannone. Per tutto il mese infuriarono i combattimenti. A capo degli occidentali venne nominato l’ambasciatore inglese Claude Mac Donald, decano del corpo diplomatico, che il 29 luglio riuscì a far giungere a Tien Tsin un messaggio disperato. Gli assediati erano allo stremo, privi di munizioni e rifornimenti, ma continuavano a resistere in attesa dei rinforzi. Che finalmente arrivarono il 14 agosto.
Partito da Tien Tsin un nuovo corpo di spedizione, al comando del generale inglese Alfred Gasalee, il 14 agosto raggiunse la capitale. Era formato da 17 mila uomini (tra cui altri 35 marinai italiani guidati dal tenente di vascello Sirianni), francesi, inglesi, americani, giapponesi, tedeschi e austriaci. L’imperatrice era già fuggita su un carro a Sian, mentre i boxers abbandonavano la città sotto la minaccia dei cannoni. Anche l’ambiziosa Tsu Hsi aveva capito che non avrebbe potuto continuare la guerra. Una guerra che avrebbe avuto conseguenze disastrose per il suo Paese.
Il bilancio della rivolta fu sanguinoso: sessantacinque occidentali uccisi, tra cui sette italiani, e 165 feriti (dodici italiani). Assai maggiore il numero delle vittime tra i rivoltosi: si parlò di migliaia. La rivolta dei boxers fu archiviata con la firma della pace, ma l’imperatrice poté rientrare a Pechino soltanto nel gennaio del 1902, ormai vecchia e sfiduciata. Morirà sei anni dopo.
Michele Meloni partecipò alla grande festa per la liberazione, poi restò ancora un anno in Cina, sempre imbarcato sulla “Reale Nave Elba” che stazionava nella baia di Nimrod. Insieme agli atri marinai che avevano partecipato alla difesa venne decorato dall’ammiraglio Candiani, comandante della squadra navale in Estremo Oriente. Rientrò in Italia con una medaglia di bronzo al valor militare e, sempre per la campagna di Cina, ottenne una seconda medaglia d’onore.
Ma il giovane teuladino non era stanco di viaggiare. Imbarcato sull’incrociatore “Garibaldi” nel 1908 lo ritroviamo a Messina per partecipare all’opera di soccorso della città colpita dal terremoto. L’anno dopo, in una delle rare parentesi in cui poté tornare a casa, sposò Carmelina Piras dalla quale ebbe quattro figli: Rinaldo, Leonida, Gianna e Mirella. L’anno dopo, allo scoppio della guerra italo-turca, la nave “Garibaldi” fu inviata a pattugliare le coste libiche. Durante la battaglia di Homs Michele Meloni fu nuovamente ferito.
Era il 23 ottobre e quel giorno i marinai della “Garibaldi” erano stati inviati a dar man forte ai fanti su una collina nel deserto del Margheb, non distante dalla città di Homs. Meloni, con i suoi compagni, prese posizione sulla sommità e da lassù cannoneggiava i turchi. Colpito ad una spalla da una pallottola, nonostante il dolore, continuò a sparare sino all’ultimo. Si risvegliò in ospedale. Durante la degenza venne visitato dalla duchessa Elena di Francia, moglie del duca d’Aosta, che gli regalò una spilla. Per lui la guerra era finita, ma anche la carriera militare. La ferita infatti gli comporto l’esonero dalla Marina. Michele Meloni tornò in Sardegna ai primi di aprile del 1912. Nel percorso tra Cagliari e Teulada fu salutato da tutti con grande entusiasmo, con il calore e gli onori di un vero eroe. Morì a Genova nel 1944.
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