Chiunque percorra la strada statale 292 in direzione Nord provenendo da Oristano rimane continuamente incantato dalla magica visione della bellissima rada di S’Archittu. Le scogliere in bianca calcarenite del terziario – modellate da millenni di vento, pioggia ed altri agenti demolitori – contengono, nel naturale anfiteatro, un ridosso apprezzato a partire dai probabili sbarchi fenici (di cui la ricerca archeologica non ha ancora dato risultati) e dagli utilizzi certi ad opera di quella organizzata marineria cartaginese che aveva nell’entroterra e, più specificatamente nel celebre insediamento di Cornus, il centro di controllo delle risorse minerarie del vicinissimo Montiferru. Ancora la successiva età romana annovera questo limitato specchio d’acqua protagonista di fitti scambi commerciali. Il Medioevo e la successiva epoca spagnola continuano a vedere l’area al centro di intensi traffici.
L’elemento che caratterizza questo limitato tratto di costa, a partire da Torre del Pozzo fino all’ultima cala di Santa Caterina di Pittinuri, è sicuramente l’arco naturale di S’Archittu, il cui fornice si innalza per poco più di dieci metri sul livello del mare.
L’osservazione archeologica, condotta dallo scrivente in compagnia di un geologo del Centro Marino Internazionale di Torre Grande, inizia con l’individuazione – sulla carta – delle aree costituenti i limiti della ricerca proprio attraverso una prospezione effettuata in apnea secondo la tecnica adottata nel survey, cioè della ricognizione di superficie, percorrendo l’area da indagare seguendo dei transetti, ovvero dei virtuali corridoi di larghezza e lunghezza prefissati.
Nella moderna disciplina denominata “archeologia dei paesaggi”, vaste aree di territorio vengono indagate in maniera sistematica ed intensiva da parte di squadre di archeologi seguendo delle rigorose metodologie che prevedono l’utilizzo di carte di diversi denominatori e moderni apparati GPS. Il risultato che si ottiene è un’accurata indagine di superficie con la relativa produzione dei dati di tutte quelle emergenze archeologiche – definite “unità topografiche” – che riescono a dare l’esatta scansione delle modifiche che il tempo, a volte col consenso dell’uomo, ha provocato in quel determinato territorio.
Lo studio condotto nell’approdo di S’Archittu ha consentito di effettuare un’analisi geomorfologia della costa in esame e dei fondali ad essa prospicienti mirata al riconoscimento delle diverse linee di battuta delle onde, definite ripples marks, della flora allignante, dei toponimi antichi con cui l’area era conosciuta, delle fonti classiche che se ne sono occupate e degli utilizzi (commerciali e non) che hanno visto la baia protagonista in oltre mille anni di storia.
Da un primo approccio con i fondali sono stati individuati una serie di frammenti ceramici, in parte semisommersi nella sabbia (non bisogna dimenticare che lo studio della ceramica é importante quale fossile guida non solo per le datazioni ma anche per stabilire le correnti di traffico con altri Paesi). Tra le diverse tipologie di forme e di impasto rinvenute si segnalano le ceramiche fini da mensa (definite Sigillata Chiara “A”) della seconda metà del II secolo d.C.; le ceramiche Sigillata Chiara “C” della metà del secondo venticinquennio del III secolo d.C.; e ancora frammenti di ceramiche Sigillata Chiara “D” con una cronologia estesa al 400–475 d.C.
Sono stati altresì rinvenuti resti di ceramica africana da cucina del II–IV secolo d.C., frammenti d’età traianea-adrianea della seconda metà del II secolo d.C. e d’età severiana (sino alla fine del IV secolo d.C.). Non mancano i contenitori come un’anfora a siluro del tipo Bartoloni D 9 della metà del III secolo a.C. fino al reperto, più tardo, costituito da un frammento del corpo di anfora di tipologia Late Roman 1b ascrivibile al V–VII secolo d.C.
Verso il largo é stato rinvenuto un catillus, ovverosia la parte inferiore di una macina in trachite rossa, verosimilmente proveniente dalle cave della antica Molaria, attuale Mulargia in Planargia. Tra il materiale metallico si segnalano diversi chiodi in rame e in bronzo facenti parte di strutture lignee di antiche imbarcazioni. Nell’entroterra é stato rinvenuto materiale numismatico tra cui dei follis dell’imperatore Massenzio con datazione attribuita al 308–310 d.C.
Reperti provenienti dalla stessa area fanno parte delle collezioni di vari musei. All’Antiquarium Arborense di Oristano sono pervenute sette anfore della tipologia greco–italica del I secolo d.C.. Un secondo gruppo di anfore è conservato presso l’Antiquarium di Cuglieri: si tratta di un’anfora Dressel 17 e una Dressel 7/11 prodotte nella Baetica (regione dell’attuale Spagna) adibite al trasporto di salsa di pesce, di una Haltern 70 per il trasporto di vino spagnolo e di una Dressel 20 per il trasporto di olio. Infine é stato recuperato un ceppo d’ancora in piombo col marchio L. Icni Successi denotante il navicularius,ovvero l’armatore della nave, che perse o abbandonò in condizioni meteo marine avverse l’ancora di cui era pertinente il ceppo.
Foto di copertina di Sarah Pinson
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