Prima della nascita del monte Arcuentu il territorio era costituito da un basamento stabile dell’era paleozoica (541-485 Ma), entro il quale successivamente si formava l’Unità dell’Arburese (485- 433 Ma), un ampio territorio costituito da un vasto deposito granitico ad est del quale, si estendeva, a cominciare dall’area occupata dall’abitato di Guspini, un ampio deposito di sedimenti marini risalenti al periodo oligo-miocenico (33 – 15 Ma), che culminava nella nota Fossa di Funtanazza.
Siamo in un momento in cui la Sardegna è ancora interessata dal distacco dal continente europeo verso il centro del Mediterraneo con tutta una serie di avvenimenti geologici, che proseguirono sino agli ultimi sussulti vulcanici compresi tra i 5 Ma e 0,2 Ma. Intorno ai 18 Ma si avvia l’importante sommovimento vulcanico che darà origine al monte Arcuentu e in questa fase la fossa tettonica di Funtanazza viene sollevata, tanto, come molti escursionisti narrano, non è difficile ritrovare anche a quote di oltre i 400 metri dei fossili facenti parte i sedimenti marini oligo-miocenici.
Il monte Arcuentu e la sua frastagliata catena è parte importante dell’ultimo edificio vulcanico del territorio, ciò che noi oggi ammiriamo è il frutto di processi erosivi successivi. La sua sommità dovrebbe appartenere alla parte interna di un vulcano lineare, eloquentemente rappresentato dai filoni emergenti detti “Muri di ferro” dove risaliva lento il materiale fuso. La storia geologica dell’Arcuentu è interessante ed ha da sempre incuriosito gli studiosi che ancora lo frequentano, ma prima dell’interesse scientifico ha attratto gli uomini che si insediarono al suo cospetto fin dall’era Eneolitica, nella sottostante costa arburese di Domu de S’orku. Presenza proseguita chiaramente in fase Neolitica ed il sito più prossimo ed interessante al vecchio vulcano è senza dubbio il pianoro oligo – miocenico di Pranu Agas o Pranarga, presso Genna Gruxi. Così come sono presenti i successivi insediamenti nuragici di Terra Sebis a ponete dell’austera montagna, mentre a levante troviamo il più importante villaggio nuragico di Masoni Erdi.
In questo periodo e certamente in quello successivo che l’austera montagna, attorno alla quale si andavano formando diversi e nuovi insediamenti umani, riceve particolari attenzioni.
Seguendo l’indicazione data da Tolomeo nel II secolo d.C., che dava nel nostro territorio la presenza del Sardopatoris fanum (tempio del Sardus Pater, Dio dei sardi nuragici), diversi studiosi, pur nella esiguità delle indicazioni, tentarono di ricomporre la Sardegna tolemaica dando il tempio al disotto della città di Neapolis, all’altezza di Piscinas.
Alcuni ricercatori presero in esame anche la possibilità che l’importante luogo di culto fosse ubicato sulla cima dell’Arcuentu, ipotesi poi smentita nel 1827 da Alberto Della Marmora, che frequentò la montagna in più occasioni, e lui stesso, tre anni dopo individuava il tempio del Sardus Pater ad Antas in Fluminimaggiore.
Il fatto certo è che da Piscinas, ma non solo, quella montagna con il suo profilo umano era ben visibile ed inconfondibile, pertanto, visto il periodo storico, la misteriosa sagoma che si incuneava nell’immenso cielo poteva benissimo richiamare ai sardi nuragici la loro più importante divinità, il Sardus Pater. Ipotesi accarezzata anche dal geografo olandese Filippo Clüver che agli inizi del 1600, non riuscendo ad individuare i ruderi del tempio presso Capo Frasca, pensò che Tolomeo non avesse parlato di un tempio ma di un promontorio dedicato alla divinità del Dio sardo.
Sardus per la prima volta viene citato da Sallustio nel I secolo a. C., era il figlio del dio africano Makeris-Melqart, (Eracle-Ercole) venuto in Sardegna con un gruppo di coloni, integratosi con le popolazioni locali avrebbe poi mutato il nome dell’isola da Arguròfleps nésos (isola delle vene d’argento) e Ichnussa in Sardò-Sardinia.
Alcuni studiosi fenicio-punici attestano che l’Arcuentu era, per i naviganti, un importante riferimento geografico della Sardegna orientale. Già da allora doveva essere il “sacro faro” nella rotta dei fenici, che dall’Africa, seguendo ad oriente in senso orario le correnti interne del Mediterraneo, raggiungevano facilmente la Spagna e attraverso le Baleari transitavano in Sardegna.
Il grande profilo roccioso oltre dar loro la certezza di essere al cospetto dell’isola, con il suo mento indicava il sud verso il quale i fenici si indirizzavano per riprendere la via del ritorno, lasciandosi trascinare dal moto permanente delle acque che gli avrebbe riportati in Africa.
Altrettanto nota era la rotta dall’Africa direttamente sull’isola, più faticosa perché contro corrente ma di breve durata, l’Arcuentu dava loro la certezza d’essere arrivati nella zona mediana dell’isola, dove fondarono e si svilupparono i tre più significativi insediamenti commerciali di Tharros, Othoca e Neapolis. Questa rotta sarà sempre più battuta con la nascita nella estrema costa tunisina della punica Cartagine.
Se la montagna risultava essere un importante riferimento nautico per i naviganti, per le popolazioni che vivevano al suo cospetto quell’imponente scultura naturale, dal profilo gentile e rassicurante, non poteva non essere associata alla divinità più nota del tempo, Ercole. Quest’ultimo aspetto può essere suffragato dal fato che le genti semitiche e romane, nel lungo periodo compreso tra il III secolo a. C ed il IV secolo d.C, hanno frequentato la montagna e offerto alla divinità preghiere e doni.
Il ritrovamento di un piccolo recinto sacro (Sacello) nell’apice della montagna, che ha restituito un tesoretto monetario, certifica la frequentazione del luogo per almeno 300 anni.
Periodo perfettamente pertinente nella cultura del tempo, che considerava Ercole una delle più importanti divinità che si innalza verso la volta celeste, simbolo di trascendenza, forza e immortalità.
Per raggiungere il sacello, esprimere un desiderio e deporvi, quale segno votivo, una moneta, una lucerna a conchiglia o un proiettile di frombola in piombo, le popolazioni praticavano il rito dell’ascensione, segno d’unione tra l’uomo e la divinità. Fra le più significative monete bronzee ritrovate le più antiche sono quelle puniche, con testa di Kore al dritto e testa di cavallo sul retro (300- 264 a.C), non mancano le monete dette di zecca di Sardegna, con Kore sul dritto e le tre spighe sul retro (241-238 a.C) e ancora quelle con Kore ed il toro astante sul retro (216 a.C). Un’altra moneta sarda (zecca di Cagliari) ritrovata è quella dei Sufeti (Magistrati cartaginesi di Cagliari) con sul dritto due teste accollate a destra, accompagnate dalla legenda ARISTO MVTVMBAL RICOCE SUF. Al rovescio un tempio tetrastilo con la legenda VE NE RIS e, in esergo, KAR (44-28 a.C). Elemento piuttosto raro e problematico perché coniato in piena fase romana repubblicana. Oltre la suddetta moneta fanno parte del tesoretto numerosi bronzi romano repubblicani detti Assi, con testa laureata di Giano sul dritto e prua di nave sul rovescio e Semissi, con testa di Saturno e prua di nave (211 a.C). Altrettanto interessanti sono i due Assi di zecca sarda di diversa coniazione con sul dritto M.ATIUS BALBUS e sul retro SARD PATER (60-32 a.C), rappresentato dalla testa del Sardus Pater con corona piumata, rivolto a destra con lancia, mentre la seconda è senza lancia. Seguono un buon numero di monete imperiali che certificano la frequentazione del sito sicuramente sino al 400 d.C. La presenza della moneta dei Sufetti cagliaritani indurrebbe a pensare che l’ascensione sulla montagna sacra fosse praticata anche da popolazioni non del territorio, per venerare il mitologico Dio.
Con la caduta dell’impero romano d’occidente l’Arcuentu monte sacro, venne gradualmente abbandonato per l’arrivo nel IV secolo dei bizantini in Sardegna. I rappresentanti dell’impero romano d’Oriente, attraverso un diffuso monachesimo porteranno nell’isola un nuovo fenomeno religioso, che immancabilmente coinvolse anche il nostro territorio. Venivano così interessate le comunità pagane che ancora guardavano al vecchio vulcano ed al suo profilo con sacralità. Peraltro l’imperatore Teodorico, nel 380 d.C., promulgando l’Edito di Tessalonica proclamava il cristianesimo la religione dell’impero, condannando e vietando tutti i culti pagani.
La nuova religione cristiano – ortodossa tendeva ad inglobare gli antichi riti, cancellare le divinità politeiste attraverso la predicazione del nuovo e vecchio testamento e naturalmente cancellare il culto del sacro monte.
L’evoluzione del toponimo Arcuentu, che dovrebbe derivare per assonanza da Herculentu (Monte di Ercole), in fase bizantina, attraverso l’opera di evangelizzazione, potrebbe aver subito la mutazione latina in Arcus ventus (Arco del vento, come ancora molti lo definiscono) e avvalendosi del linguaggio di Gesù i monaci comunicavano il nuovo Dio servendosi dei fatti di vita a tutti noti. Nel nostro caso il profilo umano del vecchio vulcano trasfigurato in “Arco” avrebbe soppiantato l’Ercole pagano attraverso il passo della Genesi (9,16): “L’arco sarà sulle nubi, ed io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio ed ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra”, nonché poggiandosi sul secondo elemento naturale il “Vento” con il passo di Giovanni (3,8): “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito”.
Il periodo Bizantino (534-900) in Sardegna dura circa 300 anni e si concentrerà prevalentemente sulle città e nelle aree più significative, in quanto il dominio di Bisanzio si caratterizzò solo per le tasse e la diffusione del cristianesimo ortodosso. L’Arcuentu perdeva così gradualmente l’antico riferimento pagano, per assumere quello cristiano – ortodosso, che le disperse popolazioni locali al suo cospetto iniziarono ad assimilare, presumibilmente facendo riferimento alla chiesa campestre e villa romana di Santu Antine (San Costantino), celebre imperatore venerato come santo dalle chiese orientali ed introdotto in Sardegna dai bizantini, al di sotto del passo di Genna Gruxi.
Con la perdita del suo riferimento pagano in questa fase la cima del monte, che si eleva a 785 m. s.l.m, presumibilmente iniziò la sua importante funzione militare di vedetta, visto la possibilità di spaziare su tutto il mar di Sardegna e l’intero Campidano, così da supportare in particolare i castrum bizantini eretti a difesa dei villaggi e del territorio nelle sottostanti città di Neapolis e Tharros, minacciate dalle invasione dei Goti prima e dai Saraceni poi.
É certo che l’Arcuentu dopo la fase Bizantina con il nascente giudicato di Arborea (900-1420) divenne un importante presidio militare, con la costruzione del castello ed il suo borgo di Biddatzèi.
La data della sua edificazione non è dato sapere, attraverso i resti che ancora si conservano si può affermare di non trovarci di fronte al classico castello fortificato da possenti murature, come siamo abituati intendere, ma trattasi di un piccolo agglomerato urbano fortificato naturalmente dall’impervia montagna con una bassa torre quadrangolare di vedetta a sud, strutture per accogliere una guarnigione di militi e un ambiente sotterraneo voltato a botte, che alcuni affermano essere una cisterna. Altra cisterna scavata in roccia viva, mantiene anche oggi un importante riserva idrica.
Protetto naturalmente da profonde pareti a picco, si accedeva e ancora si accede alla sommità esclusivamente attraverso un impervio ed unico sentiero, che in epoca medioevale era sbarrato da un doppio accesso con una porta a valle, presso la base del grande tacco magmatico e una più a monte.
Sappiamo essere, con il castello di Marmilla, fra i primi eretti nel territorio giudicale presumibilmente nel XII secolo. Proseguiva sicuramente la funzione del controllo, in particolare quello marino, vigilava su Oristano capoluogo del Giudicato e dominava i filoni minerari di Montevecchio – Ingurtosu con l’importante estrazione d’argento. Il prezioso metallo in fase medioevale riprese la sua massiccia produzione, utile per la coniazione monetaria ed esso stesso moneta di scambio, ampiamente utilizzato per la realizzazione di elementi sacri e arredi delle corti.
L’Arcuentu, chiamato dai naviganti medioevali “Il pollice di Oristano”, poteva comunicare con specchi o segnali di fumo su tutto il territorio del Giudicato e in particolare avvisare il capoluogo dagli eventuali pericoli in arrivo da terra e dal mare, tenuto conto che per tutto il periodo giudicale e fino ai primi del 1800 non smisero le nostre coste d’essere soggette alle incursioni musulmane.
Dell’esistenza del castello ne abbiamo certezza a far data dal 16 settembre 1164, quando il giudice Barisone I d’Arborea stipulava con Genova un trattato per ottenere prestiti ed aiuto militare contro Pisa, in cambio del diritto di commercio nel territorio, l’uso del porto di Oristano e dei castelli di Arcuentu e Marmilla. L’accordo con Genova consentì a Barisone I anche la sua incoronazione a Re di Sardegna, da parte dell’imperatore Federico I Barbarossa nell’agosto del 1164.
Il castello rimase in mano ai genovesi per lungo tempo, in quanto Barisone I non riuscì ad onorare l’impegno assunto. Per tale ragione fu anche costretto a rinunciare al titolo di Re di Sardegna ed alla sua morte l’onere del debito fu trasferito al figlio Pietro I de Lacon-Serra, che nel 1185 lo estinse diventando cittadino genovese. Il prof. Cerare Casula ipotizza la restituzione agli Arborea del castello dell’Arcuentu e della Marmilla sia avvenuto nel 1192.
Il ritorno sotto il controllo dell’Arborea sembrerebbe non averne mutato la funzione, che rimase sostanzialmente di presidio strategico e osservatore privilegiato degli avvenimenti storici che andavano mutando.
Allo stato attuale non si hanno notizie del coinvolgimento diretto del castello in avvenimenti bellici dopo il 1192, del resto l’area sud del Giudicato che giungeva sino a Buggerru era piuttosto impervia e sostanzialmente disabitata, inoltre le difficoltà oggettive di espugnare il maniero ne precludevano ogni velleità.
Venendo meno l’utilità strettamente militare, si ha notizia che le strutture del maniero fossero state cedute all’ordine Vallombrosano durante la reggenza del Giudice Barisone I (1146-1186), fautore di una nuova immigrazione monastica nell’isola.
L’Arcuentu con il suo castello rientrò così nel nuovo flusso monastico, che in quegli anni andava diffondendosi in Sardegna fortemente voluto dal papa Gregorio VII, che dal 1073 richiamava i giudici all’obbedienza ed alla dipendenza della chiesa romana, in sostituzione del preesistente monachesimo bizantino.
Alcuni ricercatori riportano al 1188 la presenza dei monaci Vallombrosani presso il monastero di San Michele di Uras, detto di Thamis. I religiosi toscani erano presenti nel giudicato d’Arborea con un altro cenobio nel paese di Masulas e la nascita del terzo monastero di San Michele del Monte Erculentu pare una emanazione del cenobio di Uras. Insediatisi nella cima della montagna gli eremiti poterono mettere in pratica la loro rigida missione legata alla ferrea regola benedettina, che prevedeva il non lavoro, la vita comunitaria imperniata sul silenzio, l’umiltà e l’obbedienza.
Alcuni studiosi affermano che il monastero fosse già fiorente nel 1198, in quanto il San Michele de Monti Arculenti è menzionato in una bolla di Papa Innocenzo III, ubicato nella curadorìa di Bonorzuli. Altra bolla che certifica la presenza vallombrosana sulla montagna giudicale è quella del pontificie Onorio II del 1217.
A conferma della prosperità del cenobio, gli studiosi riportano la tassa di quattro Massamutinos auri e 10 lire alfonsini versati dal responsabile della “ecclesia San Micaelis de Monte Orculentu” Dominu frate Silvestro nel 1342.
Si potrebbe affermare che l’Arcuentu riprese ad essere il luogo mistico e di preghiera a contatto con il cielo, in quanto dopo il 1342 il castello pare non interessato da alcun evento militare e tanto meno coinvolto nella lotta aperta da Mariano IV contro Pietro IV re di Aragona. In particolare non si hanno notizie che il maniero avesse avuto un ruolo durante la battaglia di Sanluri del 30 giugno 1409 e tanto meno si ha la partecipazione delle milizie giudicali dell’Arcuentu quando Leonardo Alagon sconfiggeva le truppe regie nella battaglia di Uras il 14 aprile 1470 ed i superstiti catalani trovarono rifugio a Guspini, giurisdizione nella quale era allora il castello. La successiva battaglia di Macomer del 19 maggio 1478 decretava la definitiva scomparsa del Giudicato d’Arborea e l’avvento dominio spagnolo sull’intera isola, per cui vennero meno anche l’interesse e il mantenimento in vita di tutti i castelli dell’Arborea.
Oltre al progressivo decadimento del castello come avamposto militare, non sappiamo quanto ancora durò l’esistenza in vita del monastero vallombrosiano, alcuni lo danno sino al XVI secolo, poi abbandonato a causa delle incursioni barbaresche, altri attribuiscono l’abbandono monacale all’ondata pestilenziale.
Sicuramente è da escludersi che la cessazione in vita del cenobio vallombrosano sull’Arcuentu fosse dovuto alle incursioni barbaresche. Nel nostro territorio le scorribande interessarono i centri abitati, mentre potrebbe essere plausibile l’evento pestilenziale, a cominciare dalla storica “Peste nera” del 1347, con successivi ritorni nel 1403, anno di morte per pestilenza di Eleonora d’Arborea nel castello di Monreale, sino al 1442, che per sei mesi interessò l’intero giudicato.
Con l’avvento poi del feudalesimo nel 1504 il territorio, compreso il castello dell’Arcuentu, veniva concesso ai Carroz Conti di Quirra e successivamente, nel 1511, ai Centelles.
Le ulteriori notizie sul castello le apprendiamo dagli storici e geografi che dal 1500 visitarono i nostri luoghi, in particolare dallo storico Giovanni Francesco Fara, che nel 1584 lo ricorda abbandonato da tempo.
Così come lo descrive il generale Alberto La Marmora nella sua ascensione del 1827 per posizionare il segnale trigonometrico: “Il mio segnale trigonometrico fu collocato nella punta più elevata dei residui dell’antico castello del quale si vedono tuttora alcune ale di muro e tre cisterne”. Quell’anno l’ascensione fu alquanto travagliata: “Dopo aver percorso una gran parte di sentiero di capre, e vedendo che il cavallo che portava i miei stromenti geodetici, e specialmente il mio teodolite, non era troppo sicuro, mi affrettai di ritirare lo strumento, e farlo portare addosso. Buon per me, perché appena feci togliere questo fardello dal cavallo, inciampò, e mancandogli i piedi di dietro rotolò come una pietra da un’altezza di circa 600 metri, ed arrivò tutto fracassato nella valle, dove il cadavere fu fermato da un albero, che l’impedì di scendere più in giù qualche metro”.
L’ Ercole dormiente di fatto dal 1400 cadde in un profondo oblio sino a nostri giorni, quando fra Nazareno, già in odore di santità, accompagnato da Benvenuto fra Lorenzo Pinna di Sardara, nel 1987 decise di rivitalizzare l’eremo dell’Arcuentu utilizzando i vecchi ruderi, sistemò una piccola cappella, realizzò i modesti giacigli ed eresse un imponete crocifisso nell’ingresso del vecchio maniero. Per 15 giorni all’anno, lontano dal mondo, si dedicava ad un periodo di penitenza, preghiera e contemplazione. Rito che proseguì fra Lorenzo, considerato il continuatore spirituale del Beato Nicola di Gesturi e di fra Nazareno di Pula, per circa 25 anni nel periodo estivo si ritirava per un mese in piena solitudine a pregare e contemplare l’immenso, ripercorrendo lo spirito francescano di amore per il creato, per la natura, gli animali e le piante. A lui si deve la collocazione della “Via Crucis”, con le 14 stazioni rappresentate attraverso pannelli bronzei posizionati lungo il cammino di ascensione, dalla base del grande tacco sino alla sommità della montagna.
Oggi un gruppo di fedeli a fra Lorenzo ha iniziato a recuperarne i ruderi dell’antico castello riportando l’Arcuentu alla sua primordiale origine verso il cielo, attraverso l’opera ed il ricordo francescano per proporre nuove ascensioni all’incontro con Dio.
Foto di copertina di Clemente Muntoni
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