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Alla scoperta di Porto Flavia_di Tarcisio Agus

É sempre una grande gioia tornare sull’icona più rappresentativa del Parco Geominerario della Sardegna, Porto Flavia. Lo è ancora di più quando lo fai con degli amici del Polesine, Damiano, Maris, Fausto e Cristina, mille miglia lontani da storie minerarie ma amanti della Sardegna, che quest’anno hanno manifestato il desiderio di un tour delle miniere. Fra le più interessanti del Sulcis Iglesiente Arburese e Guspinese visitate, non potevamo non inserire la visita all’originale e più importante approdo ed infrastruttura mineraria della Sardegna. Negli scambi epistolari parlammo di Porto Flavia e delle sua strana e antichissima formazione. L’immagine del sito evidentemente era tanto chiara che al comparire sull’orizzonte del profilo costiero, presso la spiaggia di Fontanamare di Gonnesa, gli amici scorsero immediatamente il promontorio di Porto Flavia. L’osservazione da quel punto riporta idealmente alla sua prima origine cambrica, quando il faraglione calcareo di Pan di Zucchero (Concali su Terràinu), era parte integrante della falesia di Punta Is Cicalas (Porto Flavia). Man mano che salivamo i tornanti ci schiudeva quell’unitarietà formatasi 542 Ma, e quasi in una sequenza geologica, si “rivive” il graduale distacco dalla falesia di Punta Is Cicalas del possente monolita del Pan di Zucchero. La lenta e continua deformazione del cambrico seguita dall’erosione marina ha isolato il monumento naturale dalla costa, creando lo splendido scoglio che si eleva per 133 metri sul mare.

L’isolotto “Pan di zucchero”

Lungo i tornanti Damiano al volante veniva costretto a fermarsi più volte, perché Fausto non poteva  non immortalare quei paesaggi che mutavano continuamente lungo l’ascensione e che destavano altrettanta curiosità in Meris e Cristina, che pur dentro l’abitacolo, non potevano non accorgersi del vasto panorama che di volta in volta quei tornanti ci offrivano. Ma non solo, erano affascinati dai ruderi minerari e da quelli appena lasciati di Fontanamare, in particolare s’incuriosirono alla lunga traccia del condotto dei fumi di fonderia che ancora si snoda sul fianco della montagna sino al suo apice con i resti della ciminiera.

Altra fermata prima della frazione di Nebida, per osservare con maggior attenzione la presenza nel vasto specchio blu di altri due altrettanto interessanti scogli allineati e paralleli alla costa, chiamati Il Morto e S’Aguster, sempre di colore bianco ceroide, che contrastano con la costa costituita da rocce che variano dal giallo ocra sino a diventare violacee, chiamate localmente puddighine. Forse con riferimento al colore delle gallinelle che un tempo razzolavano nei cortili dei nostri avi, trattasi di affioramenti scistosi, tipici della costa dell’iglesiente databili al 485 – 443 Ma  (Ordoviciano).

In questo scenario che ancora oggi sembra immutato nel tempo, ad eccezione che non si guardi la falesia dal mare, perché la mano dell’uomo ha lasciato il suo evidentissimo segno con la maestosa facciata incastonata fra le rocce di Punta Is Cicalas quasi fosse un eremo di montagna, ma il sottostante mare e l’inequivocabile indicazione geografica di Porto Flavia, ci richiama ai luoghi di lavoro che nell’ampia vallata di Nebida da tempo ormai si manifestavano.

L’ingresso prima delle gallerie

Un’opera di grandiosa bellezza e di sofisticata tecnica mineraria data dall’intuizione del veneziano Cesare Vecelli direttore della società Ville Montagne, che riuniva le tre concessioni minerarie di Acquaresi, Montecani e Masua, allora impegnate nella riorganizzazione della vasta attività mineraria ed in particolare nell’abbattimento dei costi di trasferimento dei minerali verso i luoghi di utilizzazione in Italia ed Europa. Il progetto per la creazione di un impianto di stoccaggio dei minerali interessò tutto il promontorio di Bega Sa Canna e l’ingegner Vecelli vide coronare il suo sogno con l’approvazione del progetto il 22 ottobre 1921. Ispiratosi ai nascenti silos portuali per lo stoccaggio dei cereali, l’ingegnosa opera veniva interamente celata dentro la montagna, diventando  il fulcro del nuovo sistema di raccolta e concentrazione dei minerali estratti. L’imponente opera rivoluzionò il sistema sino allora adottato di stoccaggio e trasferimento dei minerali che si poggiava sui piccoli moli di Masua e Nebida dove attraccavano le bilancelle, imbarcazioni a vela latina, una volta utilizzate dai pescatori carlofortini per la pesca del corallo. Il carico dai modesti depositi avveniva attraverso i galanzieri, gli uomini addetti al carico della galanza, così veniva chiamata la galena dai carlofortini. Per le operazioni erano necessari una quantità di operatori  robusti, chiamati ogni volta a movimentare il minerale in ceste da 40 – 50 kg. Operazione che si ripeteva poi con lo scarico nei depositi di Carloforte, seguita da una nuova operazione di carico quando la disponibilità di un nave consentiva il trasferimento dei minerali nelle lontane fonderie.

I nostri amici del Polesine non conoscevano gli antefatti ma già l’avvicinarsi allo strano porto gli incuriosiva e così dotati di caschetto si sono immersi nella prima parte del tunnel seguendo le indicazioni della bravissima guida. Pur non trovandoci in una miniera le caratteristiche erano comuni, con la galleria che ospitata l’antico tracciato ferroviario e alcuni tratti di galleria armati con il legname per la protezione delle volte. La realizzazione del vasto impianto ha seguito le tecniche ed adoperato gli strumenti minerari con le perforatrici, le volate con la dinamite e lo sgombero dei materiali attraverso i fornelli. Superato il lungo percorso lineare ci si ritrova nel tratto più complesso al di sopra di 9 silos perfettamente ricavati nel cuore della montagna. Sfruttando la formazione litologica di questo ultimo tratto di galleria di facile scavo e consistenza, nonché l’abnegazione di provetti minatori che attaccando la ripida parete della falesia dall’esterno a picco sul mare penetrarono nell’interno del promontorio. Quest’ultima parte costituisce la “sala” dei silos, dove sul lato destro risultano le aperture di cinque dei nove contenitori, mentre gli altri quattro vennero scavati sul lato sinistro.

La visione del  vuoto sottostante attraverso le grate impressiona i visitatori, compresi i nostri amici, che non immaginano quanta fatica e pericolo abbiano corso i minatori che vi hanno operato. Operare nella realizzazione di una galleria in orizzontale comportata molti pericoli, ma molto meno dell’operare perforando la montagna dal basso verso l’alto per ricavarne gli articolati depositi.  Dotati di un’altezza di 20 metri ed una capacità compresa tra i 507 e gli 866 metri cubi, i vuoti potevano contenere circa 16.917 tonnellate di materiale estratto pari a 34.000 vagoni. Lo scarico dei minerali avveniva poi tramite le tramogge che fuoriuscivano su un secondo tunnel a quota 16 metri sul livello del mare, dove era posizionato il nastro trasportatore, che raccordato con un ponte mobile  raggiungeva l’esterno della galleria direttamente sulla stiva della nave ed attraverso un tubo gommoso chiamato “Buttafuori” si procedeva al carico.

Quest’ultima parte dell’opera non è stata possibile visitarla per questioni di sicurezza, ma è stato emozionante al termine della sala dei silos, dove la piccola ferrovia compie il suo percorso e si rimette sulla via del ritorno, affacciarsi  di fronte  al Pan di Zucchero, quasi lo si toccasse con mano.

Uno spettacolo della natura senza uguali nel lembo più antico della Sardegna,  un abisso pensando agli 11-12 milioni di anni fa della formazione del Polesine, dove vivono i nostri amici usciti frastornati dall’opera ingegneristica del loro quasi conterraneo Ingegner Vecelli, che intestò  la sua più importante struttura alla figlia Flavia. Un’ultima foto ricordo all’uscita dell’insolito porto ed un ringraziamento alla guida ed accompagnatrice che ci hanno permesso un tour nell’oscurità  illuminata dall’ingegno umano.

Un ultimo sguardo per prender fiato e guardare la prossima tappa, dalla passeggiata panoramica di Nebida dove nel profondo blu che separa Porto Flavia dall’isola di San Pietro, si può  immaginare la scia delle centinaia di bilancelle che dai sette principali approdi minerari di Piscinas, Portixeddu, Bugerru, Cala Domestica, Masua, Nebida e Fontanamare, si muovevano verso Carloforte, scelta dalle società concessionarie delle miniere della Sardegna come punto d’imbarco dei minerali. Dal 1851 una flotta di imbarcazioni a vela latina, con un carico ciascuna di 10 – 20 tonnellate di minerali, viaggiava instancabile fra i porti minerari e Carloforte dando un notevole sviluppo e nuove opportunità economiche agli abitanti dell’isola. Con la partenza della prima nave da Porto Flavia il 7 maggio del 1925, le scie delle bilancelle diminuirono  sempre più  sino a scomparire del tutto, con esse venivano meno l’imponente schiera dei mille galanzieri, non più necessari difronte alle nuove conquiste tecnologiche. Il caso dei galanzieri nello scenario minerario che ha sempre visto l’aumento di produzione ed occupazione con la meccanizzazione, fu un primo duro segnale di quanto poi avvenne nel tempo, con il venir meno dell’interesse minerario nell’isola.

All’orizzonte l’isola di San Pietro